In bicicletta tra i ghiacciai dell’Alaska

Un’avventura in solitaria per una sfida contro la natura e contro se stessi. Luigi Barilari, ciclista-randonneur specializzato nelle gare su lunghe distanze, ci racconta la sua avventura in mountain bike tra le nevi dell’Alaska.

La sfida di Luigi Barilari tra i ghiacciai dell'Alaska

“L’Alaska è una nuova frontiera, una nuova avventura […] L’Alaska è fredda, ampi spazi di solitudine, è scoprire nuovi limiti dentro di me, cosa può darmi in più che non ho mai provato”.

Sono queste le parole che aprono il documentario di Gianluca Camporesi.

“Alaska” è il titolo del video che racconta la grande avventura di Luigi Barilari.

Classe 1955, Luigi Barilari è un ciclista-randonneur che ama mettersi alla prova e accettare sfide apparentemente impossibili.

L’appellativo di “Everyday climber” pare calzare a pennello a questo 62enne forlivese che ha fatto della sua vita un’avventura continua.

Dalla Nove Colli alla Rimini-Viareggio passando per la 1001 Miglia, fino ad arrivare all’UltraCycling prima e all’”Alaska” dopo.

Levissima ha voluto intervistarlo per farsi raccontare la sua più grande sfida, quella contro la natura selvaggia dell’Alaska.

Luigi Barilari in bicicletta tra i ghiacciai dell'Alaska

Ci parli un po’ di lei e di com’è nato il suo amore per il ciclismo.

Ho iniziato ad andare in bicicletta da adolescente, ma essendomi sposato da giovanissimo (19 anni) ed essendo diventato padre subito dopo, ho parcheggiato la bicicletta in garage e lì è rimasta fino a quando, nel 1995, mio figlio non l’ha trovata e mi ha chiesto se poteva utilizzarla.

La cosa mi ha così emozionato che ho deciso di andare a comprare una bicicletta usata. Abbiamo iniziato a pedalare insieme ed è stato il periodo migliore del nostro rapporto, due anni stupendi.

Poi però Gianluca ha smesso, probabilmente era più interessato alle ragazzine, ma io ho continuato.

Dalla Nove Colli alla Rimini-Viareggio fino ad arrivare alla 1001 Miglia e all’UltraCycling.

Si. Dopo un periodo di Granfondo sono arrivato alla Nove Colli. La Nove Colli del 2006 è stata la mia miglior prestazione, 200Km in 6 ore e 45 minuti. Forse è stato in quel momento che mi sono accorto di essere stanco dell’agonismo, cercavo qualcosa di diverso.

Ho iniziato ad appassionarmi alle lunghe percorrenze soprattutto perché, nonostante i km da macinare fossero molti di più, si poteva pedalare a testa alta e godersi il paesaggio.

Dopo la Parigi-Brest e la 1001Miglia, ho deciso di sfidare me stesso partecipando all’Ultracycling. Ho attraversato l’America da costa a costa (4870Km) in 12 giorni.

Quale di queste è stata l’esperienza più significativa?

Sicuramente l’Ultracycling perché è stata una sfida contro me stesso, una prova di vera resistenza. È stato davvero faticoso perché era impossibile per me governare il sonno.

Sono caduto più volte dalla bicicletta perché mi addormentavo pedalando.

Lei ha partecipato all’Iditarod Trail Invitational, ci racconti dell’esperienza vissuta in Alaska.

Partiamo dalla storia. L’Iditarod nasce come gara per i cani da slitta quando, nel 1925, a Nome scoppiò una violenta epidemia che colpiva soprattutto i bambini. Viste le condizioni climatiche nessun mezzo riusciva a raggiungere Anchorage, dove l’antitossina era reperibile, quindi furono i cani a riuscire a raggiungere la città e a riportare, in tempo, la cura.

Conosco questa storia, è l’episodio che ha ispirato il film animato “Balto”…

Esattamente. L’Iditarod è nata proprio da questo episodio. In principio c’era solo la corsa dei cani da slitta ma, con gli anni, è nata la corsa a cui si partecipa in bicicletta, a piedi o con gli sci.

Ho deciso di sfidare me stesso e partire alla volta dell’Alaska. Prima di partecipare, però, sono andato in Alaska per frequentare un corso di addestramento.

Qui ho imparato a “sopravvivere” negli ambienti ostili della natura selvaggia. Bisogna essere preparati a dormire fuori a temperature rigidissime (-25°), bisogna saper riconoscere qual è la legna da utilizzare per accendere il fuoco, bisogna essere in grado di “produrre” acqua.

La gara era di 570Km e io l’ho fatta in 7 giorni. Un sfida meno faticosa dell’Ultracycling, ma molto più pericolosa.

Alla sua avventura Gianluca Camporesi ha dedicato un documentario, “Alaska”.

Nella scena iniziale del documentario lei afferma che l’Alaska è scoprire nuovi limiti.

Quali sono i limiti che ha superato durante questa sorprendente pedalata?

L’Alaska ti aiuta davvero a superare dei limiti. Durante la mia gara ho rischiato la disidratazione, perché pur avendo finito l’acqua ho continuato ad andare avanti per arrivare al check point più vicino.

Ho commesso un errore perché in quel caso bisogna fermarsi, tirar fuori il fornellino per sciogliere la neve e bere l’acqua.

Anziché seguire “le regole” che avevo appreso durante il corso, io mi sono dissetato con delle manciate di neve.

Questa mia irrazionalità mi ha causato problemi all’intestino e bloccato a letto per due notti e un giorno.

Ma questo non è nulla in confronto a quando ho rischiato il congelamento.

Stavo attraversando un fiume e non mi ero accorto che l’altezza dell’acqua era superiore agli stivali che indossavo e, di conseguenza, l’acqua mi è entrata negli stivali.

Ero disperato perché ero ben consapevole di cosa sarebbe potuto succedere se non avessi conosciuto le giuste procedure per far riprendere la circolazione del sangue.

L’Alaska è questa ma, probabilmente, questa è la sua bellezza più grande.

Ho amato quest’esperienza e avevo deciso di partecipare anche quest’anno ma, avendo avuto un problema al ginocchio, ho preferito rimandare, tanto l’Alaska resta lì. Parteciperò il prossimo anno.

Per lei conta più la meta o il viaggio?

Conta tutto. La cosa più importante è sicuramente l’obiettivo e il motivo è semplice: quando raggiungi l’obiettivo che ti sei prefissato la soddisfazione è così grande che è impossibile tenerla dentro.

Ho iniziato per caso ma poi, nella corsa, ho capito che da 200Km ero tranquillamente in grado di passare a 300 e poi a 400e così via… ogni chilometro in più equivaleva a una soddisfazione in più.

Certo, con i Km aumentavano anche i sacrifici ma la soddisfazione era molto più forte. Ancora oggi non ho ben chiaro a che punto della mia storia io sia arrivato, non sono ancora riuscito a capire qual è il mio limite.

Per adesso la soddisfazione è immensa.

Levissima ha come consumatori ideali gli “EVRERYDAY CLIMBERS”, scalatori di vette quotidiane che ogni giorno si impegnano per raggiungere il proprio obbiettivo.

Lei si sente un po’ un everyday climber?

Quali sono dalla sua esperienza personale, le caratteristiche che deve avere un everyday climber?

La prima caratteristica è sicuramente avere la capacità di sognare, perché se hai dei sogni hai degli obiettivi. È evidente che i sogni non si realizzano come per magia ma bisogna lottare, sacrificarsi.

Bisogna crederci ed essere determinati.

Pedalare mi ha insegnato a vedere sempre il bicchiere mezzo pieno e questo mi ha aiutato molto perché, è ovvio, se affronti la vita con positività anche le situazioni più impervie ti appaiono “superabili”.

Le faccio l’esempio dell’Ultracycling: la prima cosa che ho pensato è stata “com’è possibile pedalare per 4870Km?”, poi però ho capito che quest’avventura non era una corsa continua, ma un viaggio fatto di tappe. Inizi con i primi 70km poi altri 70 e così via.

E intanto si gode il viaggio…

Esatto e di questi viaggi l’Alaska è uno di quelli che preferisco. È un ambiente rigido, non c’è dubbio, ma è anche molto confortevole. Il cielo dell’Alaska sembra quasi di poterlo toccare, è una sensazione che noi abbiamo perso.

Sotto quel cielo, privo di luci artificiali, è facile sentirsi più vicini a se stessi.


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